una tragedia d’amore e una tragedia umana – note di regia per Trovatore

Una tragedia d’amore e una tragedia umana

NOTE DI REGIA per IL TROVATORE

 

Ascoltare e assimilare la musica ancor prima di studiare il testo poetico è un

gesto indispensabile per un regista che voglia porsi con la necessaria umiltà

di fronte al linguaggio utilizzato dal compositore non solo per rivestire le

parole di note, ma per dare delle parole la sua personale interpretazione.

Ebbene, ascoltando il Trovatore sento, prima d’altro, l’urgenza di esprimere

liricamente una tragedia d’amore e drammaticamente una tragedia

individuale: la lirica tragedia che avvince Leonora e Manrico, destinati a

morire incolpevoli per il solo fatto di amarsi, a dispetto di un terzo innamorato

che non trova la possibilità di realizzare il proprio sogno; e la drammatica

tragedia, personalissima e atroce, di Azucena, il cui destino violento l’ha

condotta ad assistere al rogo della madre, a compiere l’involontario

infanticidio del proprio figlio e che, infine, la obbliga a chiudere il cerchio della

sua vita di disperazione vedendo salire il patibolo a colui ch’ella ha cresciuto

e amato come il figlio perduto.

E il dopo, ciò che le note finali dell’opera lasciano presentire allo spettatore,

sembra essere non meno atroce: Azucena che forse a sua volta sarà

condotta a un martirio identico a quello cui fu dannata sua madre; e il Conte

di Luna che espierà il sangue innocente di cui si è macchiato le mani con una

solitudine che si può immaginare senza requie, come conferma la domanda

“e vivo ancor?” che chiude l’opera.

Il Medioevo e gli echi di guerra si lasciano intuire in certe sequenze, ma non

dominano certo l’opera che anzi potrebbe essere facilmente collocata in altra

epoca, in altro luogo e lontano dal fragore delle battaglie senza nulla perdere

della sua compattezza.

In tale luce sembra opportuno ricollocare i protagonisti entro le dimensioni

psicologiche che il compositore sembra avere voluto per loro, ponendo nella

giusta luce il gradiente di infelicità che grava su tutti, senza eccezione.

Leonora vive la sua illusione d’amore per un tempo assai breve,

confessandola alla fida Ines, subito dopo che il coro e Ferrando hanno

terminato di tratteggiare i violenti antefatti, e subito prima che uno sciagurato

scambio di persona scateni l’ira vendicativa del Conte. Di qui innanzi Leonora

può solo scendere la via obbligata dell’ansia e della sofferenza fino al gesto

fatale e liberatore del suicidio.

Manrico sconta il prezzo di una maledizione che non conosce, rinunziando ad

avere la meglio nel duello con il Conte, obbligato da una forza misteriosa;

affronta il cimento di conoscere da colei che ama teneramente come madre

di non essere suo figlio;  e per salvare proprio lei deve rinunziare al

matrimonio che segretamente sta per contrarre, essendo infine rinchiuso in

un carcere dove assiste impotente al suicidio dell’amata.

Il conte di Luna è, forse, il personaggio meno complesso nel suo anelito

compulsivo alla vendetta che è pronto a esercitare contro chiunque, senza

che nulla lo possa trattenere o farlo ragionare. Nessuna strategia e nessuna

tattica guidano la sua condotta, accecato com’è dall’invidia e dall’odio.

Azucena, al contrario, è il personaggio più articolato e complesso che diviene

il vero centro attorno al quale ruota il plot. La sua figura, evocata nella

narrazione che occupa l’antefatto, riappare ciclicamente nel corso dell’opera

e la conclude con l’atroce confessione al Conte di avere ucciso suo fratello.

Essa non è la vecchia megera che la tradizione scenica ci ha consegnato, la

zingara-strega che trama malefizi a danno di chiunque, ma una donna

relativamente giovane, piegata dai dolori che hanno accompagnato la sua

esistenza fin dalla tenera età: la morte ingiusta della madre, condotta al rogo

come accadeva in quell’epoca a molte donne colpevoli solo di essere

“diverse” da come le si pretendeva; l’involontario omicidio del piccolo figlio,

quasi un castigo divino per avere desiderato di sopprimere un altro innocente

per vendetta; l’angoscia per la vita perigliosa di colui che come un figlio ha

cresciuto e amato e la di lui morte, infine, su un patibolo ingiusto e folle come

quello che era toccato in sorte alla madre. Azucena è una donna pura che

vive l’orrore del suo passato e lo strazio del suo presente senza neppure

potersi confessare con qualcuno: così il grido conclusivo “Egl’era tuo fratello”

che prosegue nel “sei vendicata o madre” sembra sfondare la muraglia che

ha trattenuto e celato le pene e le tragedie della sua esistenza, per far

correre verso un ignoto destino il turbine di un dolore senza fine.

 

Romania, Galati, Teatro Nae Leonard – ottobre 2015