Turandot tra fiaba drammatica e opera lirica: gli spazi della drammaturgia

La fiaba di Turandot e tutto ciò che ne è derivato sui fronti delle drammaturgie e della narrativa affonda le radici nel mito, a partire da quello delle Amazzoni, figlie di Danao, donne guerriere e cacciatrici, così accesamente misantrope da mantenere in vita solo le figlie femmine, amputarsi la mammella destra per non essere impedite nel tiro con l’arco, e scegliere il maschio con cui svolgere il solo accoppiamento necessario alla procreazione dopo essersi battute con le armi.

Nelle Mille e una notte il mito della virago si declina variamente in diverse novelle fra cui quella che narra di Datmà, principessa di impareggiabile bellezza, disposta a concedersi in sposa solo al principe capace di vincerla in torneo: cimento dal quale tutti i candidati escono puntualmente sconfitti e disonorati O ancora quella che racconta di una principessa crudele e restia a concedersi, infine sconfitta dal pretendente che, risolti gli innumeri quesiti postigli dall’amata nello spazio di una intera giornata, la vince con un indovinello cui essa non sa rispondere .*1 Ma la vicenda della principessa bella e crudele ha tradizioni ben più antiche, derivando integralmente dal poema Haft Paikar (Le quattro bellezze) del persiano Nizàmi (1141-1203).*2 E ancora, l’andamento ternario, tipico delle fiabe di magia  *3  è ripreso anche nella Turandot nel cimento propostogli, fra l’oro, l’argento e il piombo, il metallo più vile. *4 E analogamente, nello shakespeariano Mercante di Venezia, ove Porzia va in sposa a Bassanio che ha saputo scegliere fra i tre scrigni propostigli, rispettivamente d’oro, d’argento e di piombo, quest’ultimo contenente il di lei ritratto.*5

Mutuando spunti da tali fonti e da altre ancora, la fiaba di Turandot intreccia motivi ossessionanti: il cimento, l’enigma, la fascinazione, il mistero del “terzo”, la lotta e la contesa che può farsi irriducibile antagonismo tra i sessi. Come un’amazzone orientale, Turandot ha giurato la sua gelida guerra al maschio sotto le specie di insolubili enigmi; come Medusa e Datmà ella abbacina con il suo terribile splendore chi la veda, anche in un semplice ritratto e, secondo la tradizione della fiaba di magia, la principessa scandisce in tre tempi la prova mortale: come gli scrigni di Porzia, tre sono gli enigmi ch’ella propone ai principi stregati dalla sua bellezza. Le prove si configurano diversamente nelle numerose versioni drammaturgiche che il fortunato plot ebbe a partire dall’archetipo teatrale, costituito dalla Turandotte di Carlo Gozzi, in cui le soluzioni degli enigmi sono il sole, l’anno e il leone dell’Adria (simbolo di Venezia) *6; nella versione di Schiller esse diventano l’anno, l’occhio e l’aratro *7; nella Turandot di Busoni la ragione, il costume e l’arte *8; in quella pucciniana, infine, la speranza, il sangue e Turandot stessa *9.

Indagando la costante mitica degli enigmi che “van per tre” e il motivo della scelta degli scrigni nel Mercante shakespeariano, Freud definì il terzo termine dell’enigmatica scansione “muto come la morte” *10: così il pesante mutismo del piombo nel terzo scrigno di Porzia, così l’amore silenzioso e spoglio di Cordelia (terza figlia di Re Lear), così la nascosta umiltà di Cenerentola e Psiche (ultimogenite di tre sorelle), così Afrodite, terza classificata nel concorso per il giudizio di Paride. Freud rileva come tre siano anche le Parche, dove Lachesi rappresenta gli accidenti del destino (la Speranza), Cloto il destino della stirpe (il Sangue), Atropo il destino della morte (Turandot), e come le tre insieme incarnino la scansione fatale del tempo, in sottile analogia, dunque, con gli enigmi prescelti dai librettisti per l’opera di Puccini.

In un groviglio di costellazioni mitiche e meccanismi narrativi, la donna e la morte si intrecciano nel duplice ruolo di protagoniste. Turandot come Morte, dunque: mortifero è il terrore che le spira intorno, brulicante di teste mozzate e ombre di trapassati; mortifero è il brivido che la percorre al cospetto di Calaf, come se il contatto con il maschio recasse in sé esiti letali, come se l’amore si configurasse quale forza annientatrice, la potenza virile come un affronto o una ferita. Per Turandot l’unico rapporto possibile con l’altro sesso è mediato dalla morte: è la guerra tra i sessi, in cui l’eros si esprime come tenzone, raggiungendo nella vittoria della femmina sul maschio il suo acme in una sorta di orgasmo intellettuale per negazione.

Il fascino arcano della fiaba di Turandot, che lo si voglia intendere freudianamente o in altra prospettiva, ne spiega la speciale fortuna nella moderna cultura europea. *11

Mosso da superstiti motivazioni polemiche e dall’intenzione di sperimentare strade nuove per la sua ancor giovane drammaturgia, il conte Gozzi aveva impresso con Turandot *12, quarta fra le sue fiabe, una svolta al corso della propria esperienza di scrittore per il teatro. *13. Secondo una moda diffusa nel Settecento soprattutto francese, il soggetto della fiaba fu tratto con libertà da diverse novelle contenute nella raccolta Le cabinet des Fées, i cui elementi costitutivi vennero accortamente rimontati dall’autore. *14

Se è vero che, nell’ambito della crisi del teatro italiano del XVIII secolo, la scelta di un genere fantasioso e antirealistico, almeno nelle strutture esteriori, come la fiaba, rispondeva all’esigenza di una negazione categorica del naturalismo goldoniano e della verisimiglianza del genre sérieux, essa trovava ampie motivazioni anche di ordine letterario e squisitamente spettacolistico. La scelta si inquadrava, infatti, nella straordinaria fioritura di letteratura fiabesca che, anche in Italia, si verificò nel Settecento, in rapporto con l’affermazione europea del gusto rococò. Non meno diffuso della passione per la fiaba fu in tale secolo il gusto esotico, il fascino esercitato da un oltremare, quanto mai sfumato e fantasioso, che trovava nei Contes philosophiques di Voltaire e Montesquieu un possente veicolo di diffusione e che, nel teatro veneziano, aveva peraltro già ricevuto il suggello del successo con le tragicommedie di Pietro Chiari e il ciclo persiano di Goldoni.

Il primo scopo che il conte veneziano sembra proporsi con le fiabe, in aperta polemica con il teatro realista e borghese contemporaneo, consiste nel riproporre come fondamentale l’istanza ludica dello spettacolo scenico, la sua capacità di ricondurre il pubblico a una pausa di gratuita felicità. Al nuovo ruolo intellettualmente partecipe che il teatro dei tempi suoi propone per il pubblico, Gozzi vuole contrapporre la funzione passiva tradizionale che presuppone una concezione disimpegnata dell’evento drammatico, privo perciò di qualsivoglia riferimento al dibattito sociale, politico, culturale e rinchiuso nel cerchio magico di una pseudo–realtà, lontana quanto più possibile da quella quotidiana. A tali intenti puramente edonistici si sovrappone, tuttavia, la componente didascalica e gnomica profondamente radicata nello spirito di Gozzi che pretende di spargere nelle sue fiabe i semi da cui si auspica possano uscire rinsaldati i valori tradizionali e le sane idealità del passato che gli eventi stanno travolgendo. Non si trova, pertanto, nei testi gozziani alcunché di fanciullesco o di ingenuo: dal regno della fiaba l’autore attinge bensì ingredienti e meccanismi, colori e alchimie, per rielaborarli secondo una ricetta originale, razionalmente calcolata, così da ottenere effetti ben precisi, facendo leva sul potere di ricordanza nostalgica connesso con le favole ascoltate durante l’infanzia. Il mondo illusorio e folle della fiaba gozziana non è, infatti, il portato di una fantasia sbrigliata e ingenua, ma il frutto di una tenace ricerca del meraviglioso, di una vivace capacità immaginosa, protesa verso la realizzazione di uno spettacolo “puro” posto al servizio di un progetto culturale e politico.

Non diversamente dal «meraviglioso», l’esotismo si trasforma nelle mani di Gozzi in uno strumento per allontanare lo spettatore dalla volgarità del quotidiano, per esorcizzare nella rappresentazione di un mondo remoto e fatato i problemi economici, sociali e politici posti dalla realtà di ogni giorno. L’esotismo è, infatti, presente nelle fiabe gozziane solo nei suoi dati esteriori: non il fascino sottile, non il profumo dell’oriente, ma gli scenari di cartapesta, i costumi sfarzosi, la ripresa approssimativa di riti e cerimonie sono introdotti dall’autore per incantare il pubblico veneziano e, forse, per toccare le corde della nostalgia in un popolo che un tempo fu glorioso conquistatore di remote colonie e ora vede la sua potenza avviata a disfacimento. Raggiunto il suo obiettivo primario con un teatro d’illusione, carico di valenze puramente ludiche, Gozzi pretende di insinuarvi un messaggio morale, un’istanza sociale e politica che si contrapponga a quella proposta dal teatro borghese contemporaneo.

Nel mondo incantato della gozziana Turandot, una forza misteriosa domina gli eventi: i personaggi sono sospinti da un potere arcano a compiere azioni rischiose, a obbedire a comandi privi di senso. E proprio quando gli eventi sembrano precipitare si accende una luce di speranza verso cui la vicenda muove a lieto fine. Il mito eterno di cui si diceva all’inizio si cristianizza, in un certo senso banalizzandosi. La lotta inesausta del bene contro il male che le diverse culture hanno interpretato nei millenni alla luce di concezioni differenti, traduce qui il magismo orientale in termini cristiani: al fondo della vicenda fiabesca si lascia scorgere una visione provvidenziale dell’esistenza a cui si piegano eventi e personaggi, senza per questo smarrire nulla della loro esteriore apparenza «pagana». Il fato si cristianizza compiendo il miracolo provvidenziale per cui i «buoni» trovano il giusto premio alle loro tribolazioni, i «malvagi» sono puniti: la crudele Turandot deve, infine, inchinarsi all’abnegazione e al coraggio virili dell’amore di Calaf e “godere” del sacro vincolo che unirà per sempre le loro esistenze (con buona pace di tutti i prìncipi sconfitti nel cimento e decapitati fino a quel momento).

Dopo l’intensa quanto effimera fortuna scenica toccata alla Turandot gozziana, fu Puccini a donarle autentica popolarità e dimensione definitivamente classica condannando all’oblio i tentativi pur non privi di interesse operati da Weber *15, Gazzoletti *16 e Busoni. E ciò si spiega con la speciale sapienza con la quale il maestro seppe celebrare una donna, un amore e una morte in perfetta sintonia con il gusto e la cultura del nuovo pubblico dell’opera internazionale del primo Novecento. *17

Ultima fra le opere composte da Puccini (fu abbandonata incompiuta per l’improvvisa morte del maestro avvenuta il 29 marzo 1924), Turandot rappresenta in icona il modello della rivisitazione novecentesca del mito18: la monumentale sacralità dello spettacolo (destinata a passare poi di mano dal melodramma al musical fino al cinema e a certa televisione), lo statuto di maschera — o di paradigma — dei personaggi, ma soprattutto le grandi sigle della mitologia del primo Novecento, la distanziazione formale e l’esotismo. Proprio la rarefatta e irreale lontananza consentita dall’ambientazione in un esotismo di pura maniera consente, infatti, l’esercizio di una crudeltà spesso aspra, che da Gozzi a Puccini viene accentuandosi per esempio nella trasformazione delle buffe maschere veneziane (Pantalone, Tartaglia, Brighella e Truffaldino) nelle crudeli e misteriose figure di Ping, Pang e Pong. Congelato da un’ironia macabra, l’orrore del plot non avrebbe potuto trovare una nuova celebrazione negli interni borghesi occidentali, caratteristici del teatro non solo musicale dell’epoca, e diviene, invece, tollerabile per il pubblico moderno esprimendo tutta la sua arcana fascinazione solo a patto di essere distanziato in un esotismo così fiabesco da somigliare a un sogno o, meglio, a un incubo più che alla realtà.  L’esotismo si trasforma – come accade in certe incursioni letterarie e figurative coeve – nel luogo in cui si esportano le angosce e si incontra l’arcano: perciò il distanziamento formale in Turandot non si esaurisce nel clichet della cineseria, ma si riversa in un linguaggio musicale ricco fino al caos, mosso da fratture ritmiche e inquietudini armoniche, capace di esprimere appieno quei fantasmi19. Il mito trova in Puccini un linguaggio del tutto nuovo per esprimersi, uno stile e un colore che ne traducono la specificità, lontanissimi da quelli che erano stati propri del pur riuscito esperimento tutto settecentesco operato da Carlo Gozzi.

A suggerire a Puccini, nel marzo 1920, la fiaba teatrale di Gozzi come ipotesi compositiva per una nuova opera fu Renato Simoni, noto drammaturgo, oltre che critico drammatico e competente sinologo. Una certa cautela è, tuttavia, opportuna nell’indicare come fonte del capolavoro pucciniano proprio il testo teatrale composto dal drammaturgo veneziano.20 Poco propenso ad apprezzare il bisbetico conte veneziano – che nella sua commedia che ne reca il nome nel titolo dipinge come un uomo isolato e superato dai tempi – Simoni si era proposto di utilizzare bensì la fiaba settecentesca come puro pretesto narrativo e coloristico, iniettandovi una “umanità” di cui Gozzi, come un frigido giocoliere, si era affatto disinteressato. *21 Più che lui, i librettisti Simoni e Adami sembrano avere tenuto in conto il nucleo della favola persiana originaria: e di tale intenzione sembra essere testimone la scelta iniziale di sopprimere le maschere – espediente fondamentale della strumentale alternanza operata da Gozzi tra serio e faceto, tra commedia dell’arte e dramma – preferendo poi trasformarle nei tre perfidi ministri cinesi, “grottesche caricature esotiche, tra buffe e feroci nella loro truculenza quasi goiesca” *22, portatori di una nota di colore e soprattutto pensati sul modello dei fools shakespeariani, artefici di un commento disincantato, ironico e grottesco, talvolta perfino cinico, della vicenda. *23

PING (tendendo alte le braccia)O Cina, o Cina, /che or sussulti e trasecoli inquieta! /Come dormivi lieta,/gonfia dei tuoi settantamila secoli!
PONG Tutto andava secondo l’antichissima regola del mondo…
PANG Poi nacque Turandot…
PING E sono anni che le nostre feste / si riducono a gioie come queste: tre battute di gong, tre indovinelli, e giù teste!…
A TRE e giù teste!…E giù teste!  (Siedono tutt’e tre presso il piccolo tavolo sul quale i servi hanno deposto dei rotoli. E di mano in mano che enumerano, sfogliano or l’uno or l’altro volume)
PANG L’anno del Topo furon sei!
PONG L’anno del Cane, otto!
PING Nell’anno in corso, /il terribile anno della Tigre,/siamo già al tredicesimo/con questo che va sotto!
PANG Che lavoro!
PONG Che lavoro!Che noia!
PING A che siamo ridotti
A TRE A ministri del boia!
(Lasciano cadere i rotoli e si accasciano comicamente nostalgici) *24

O ancora e soprattutto la scelta di trasformare il complesso e drammatico personaggio di Adelma in quello dell’eroica e dolcissima Liù. Accesa, aggressiva, astuta, Adelma è nella fiaba gozziana, nobile diventa schiava della principessa cinese cui cerca di sottrarre con ogni mezzo l’amato Calaf:

Adelma
Ti proibisco di favellarmi ancora.
Già capace non son de’ tuoi consigli:
altro mi parla al cor. Possente amore,
che dell’ignoto Principe m’abbrucia,
Odio, che a questa empia superba io porto,
dolor di schiavitù. Troppo ho sofferto.
Scorsi cinqu’anni or sono, che dentro al seno
chiudo il velen, rassegnazion dimostro,
e amor per questa ambiziosa donna,
della miseria mia prima cagione.
In questa vene real sangue scorre,
Tu il sai, nè Turandot m’è superiore.
In vergognosi lacci schiava umile
E sino a quando una mia pari deve,
come ancella, servir? Gli sforzi estremi
per simular m’hanno già resa inferma;
di giorno in giorno io mi distruggo, come
neve al sol, cera al foco. Dì, conosci
in me più Adelma? Io risoluta sono
Oggi d’usar quant’arte posso. Io voglio,
per la strada d’amor, di schiavitude,
o di vita fuggir.
[…]
È questo il vero punto
di tentar tutto, o di morir. S’ascolti.  *25

Perduta ogni speranza ella si toglie la vita senza risparmiare all’amato parole
aspre di condanna:

Adelma (furente si fa innanzi)
Sì vivi pur, crudele, e lieto vivi
colla nimica mia. Tu, Principessa,
sappi, ch’io ti odio, e che gli arcani miei
furono sol per divenir consorte
di costui, ch’adorai, cinqu’anni or sono,
sin nella Corte mia. Tentai sta notte,
fingendo favorir le tue premure,
di fuggir seco, e ti dipinsi iniqua;
tutto fu vano. Dalle labbra sue
uscir per accidente que’ due nomi.
Palesandoli a te sperai per questo,
che tu il scacciassi, e di poter ancora
meco a fugir sedurlo, e farlo mio.
Troppo t’ama costui per mio tormento.
Tutto fu vano, ogni speranza è persa.
Una so via mi resta, e usar la deggio.
Di regio sangue io nacqui, e mi vergogno
d’esser vissuta in vil lorda catena
di schiavitù sin’ora. In te aborrisco
un oggetto crudel. Tu mi togliesti
padre, fratelli, madre, suore, regno,
e l’amante alla fin. Esca da tante
sciagure Adelma. Togli anche il residuo
della mia stirpe, ed il mio sangue lavi
viltà fin’or sofferta. (raccoglie il pugnale di Calaf, indi fieramente)
E’ questo il ferro,
che risparmiasti al sen del sposo tuo,
perch’io mi trucidassi. Il popol miri,
se dalla schiavitù so liberarmi.
(in atto di ferirsi. Calaf la trattiene)
Calaf
Fermati, Adelma.
Adelma
Lasciami, tiranno… (con voce piangente)
Lasciami ingrato…io vo’ morir. *26

Compagna fedele del vecchio padre di Calaf, Liù è pronta al sacrificio estremo per fare salva la vita dell’amato principe, cui tutto volentieri dona, agnello dolce e sconsolato:

Liù
Signore, ascolta! Deh! Signore, ascolta!
Liù non regge più!
Si spezza il cuore! Ahimè quanto cammino
col tuo nome nell’anima,
col nome tuo sulle labbra!
Ma se il tuo destino,
doman, sarà deciso,
noi morrem sulla strada dell’esilio.
Ei perderà suo figlio…
Io l’ombra d’un sorriso!… / Liù non regge più! 27
Liù (sollevando gli occhi pieni di tenerezza)
Principessa, l’amore!
Tanto amore, segreto, inconfessato…
grande così che questi strazi sono
dolcezza a me, perché ne faccio dono
al mio signore…
Perché, tacendo, io gli do il tuo amore…
Te gli do, principessa, e perdo tutto…
persino l’impossibile speranza!…
(E rivolta agli sgherri)
Legatemi! Straziatemi!
Tormenti e spasimi
date a me!
Saran, per lui, l’offerta
suprema del mio amore!* *28

Dietro suggerimento di Simoni, Puccini seppe riscoprire la «inverosimile umanità del fiabesco», identificando, fin dai primi progetti, proprio nella «esaltazione amorosa di Turandot che per tanto tempo ha soffocato sotto la cenere del suo grande orgoglio» una chiave interpretativa nuova del mito e della fiaba originali. E proprio tale scelta rende possibile uno sviluppo drammatico inedito e radicalmente diverso da quello posto in essere da Ferruccio Busoni nella sua Turandot (che pare Puccini, tra l’altro, non conoscesse).

In perfetta sintonia con i suoi librettisti, Puccini smonta perciò il carattere favoloso del soggetto gozziano, non solo operando – come si è detto – sul fronte delle maschere, ma soprattutto trasformando la protagonista da donna capricciosa, fatalmente punita per il suo atteggiamento ribelle nei confronti del maschio, nella tragica esecutrice di una missione sacrale di vendetta nei confronti dei suoi pretendenti, da consumarsi per lavare l’onta subita dalla principessa Lo-u-ling, sua «ava dolce e serena», rapita e morta per difendere la propria purezza da uno straniero, tartaro proprio come il principe Calaf, che Turandot si trova ad affrontare nella prova decisiva

Turandot
In questa reggia, or son mill’anni e mille,
un grido disperato risuonò.
E quel grido, dal fior della mia stirpe,
qui nell’anima mia si rifugiò!
Principessa Lo-u-Ling,
ava dolce e serena, che regnavi
nel tuo chiuso silenzio, in gioia pura,
e sfidasti inflessibile e sicura
l’aspro dominio, tu rivivi in me! *29

A ciò si aggiunga la scelta di conferire uno spessore eroico al personaggio del principe ignoto (es. Puccini, atto I, Calaf: “Non piangere Liù”; “Forza umana non c’è!”; atto II, quadro secondo “Guarda! La mia vittoria la gitto ai piedi tuoi!”) differenziandolo dallo stolto personaggio gozziano che si invaghisce di un ritratto e si getta a capofitto nella fatale avventura, conferendo per tale via una certa credibilità alla sfida da lui ingaggiata con la principessa, in cui la posta è la sua stessa vita (Gozzi, atto I, scena 3).

L’elemento decisivo e più marcatamente originale nella ricreazione pucciniana del plot30, è costituito, come si diceva, dall’invenzione del personaggio della giovane schiava Liù e l’introduzione conseguente dell’elemento patetico attraverso la di lei morte. Il sacrificio estremo compiuto per amore da Liù e il bacio sensuale di Calaf nel duetto del terzo atto costituiscono, infatti, gli snodi topici attraverso i quali Puccini articola l’apparato simbolico della sua Turandot, in cui la crudele e glaciale principessa si converte a un grado più elevato di umanità, superando il trauma ancestrale che la spingeva a odiare tutti gli uomini. L’amore, nella sua duplice veste tragica e sentimentale insieme, del sacrificio di Liù e della seduzione da parte di Calaf, rende possibile l’umanizzazione definitiva del personaggio di Turandot.

A fronte di radicali e significativi spostamenti nella dinamica psicologica dei personaggi, l’azione scenica nel suo complesso non si distanzia, invece, in modo troppo evidente dalla tradizione di un esotismo tutto esteriore, risolvendosi spesso, come accade nel finale del primo atto, alla maniera di tableaux vivantes. La novità autentica dell’opera pucciniana rispetto alle sue fonti e, in particolare, all’archetipo gozziano, ciò che la inscrive davvero nella cultura del primo Novecento è, dunque, il processo di trasformazione psicologica che la protagonista subisce. Esso acquista risalto da una serie di contrapposizioni nette che si verificano fra gli elementi linguistici della scena, oltre che della musica: il tepore dei riflessi dorati e il freddo livore di quelli argentei, la luna e il sole, il tramonto e l’alba, la crudeltà di Turandot e il sacrificio di Liù, il fallimento del principe di Persia e il successo del principe ignoto, il corpo gelido della principessa illuminato dalla luce tagliente della luna e le «mani brucianti» con cui Calaf la stringe nella morsa dell’amplesso, la morte e l’amore. Tali elementi assumono il loro risalto, prima ancora che nelle (auspicabili) scelte registiche, nella musica che sfrutta il contrasto e le dissonanze fra blocchi compatti e distinti l’uno dall’altro, concepiti ora sulla base dell’esotismo, inteso come fatto linguistico capace di rinnovare le stanche strutture della musica occidentale, ora sul libero impiego di agglomerati armonici e intervalli dissonanti, ora sulla melodia sentimentale e patetica del più consueto stile pucciniano31. Pur avendo la possibilità di effettuare autentiche citazioni dalla musica tradizionale cinese – che Puccini conosceva anche personalmente – egli preferisce evocare per suggestioni le caratteristiche sonorità dell’estremo Oriente attraverso un’ardita sperimentazione musicale, la reinvenzione attualissima dell’esotico svolta attraverso la costituzione di un inedito organico orchestrale caratterizzato da uno spettro enorme di sonorità “selvagge”: xilofoni, campane tubolari, gong cinesi, Glockenspiel e sassofoni.

La volontà innovativa che innerva profondamente l’opera pucciniana, distaccandola vistosamente dalle sue fonti e dai suoi precedenti letterari e musicali, si coglie anche nella scelta di rivedere gli schemi formali tradizionali nel melodramma ottocentesco (le ‘solite forme’ delle arie e dei duetti) con la meticolosità calcolata dei recuperi di procedimenti ormai desueti *32. Il gap che separa Turandot dalle modalità e dai mezzi di Bohème e Madama Butterfly è assai evidente: la figura tragica della principessa crudele, destituita di ogni concretezza sentimentale ed elevata a simbolo, giunge a sviluppare la “commozione” melodrammatica per vie affatto diverse da quelle percorse da Mimì e Ciociosan. E per coglierne appieno il senso preciso occorre trascurare il completamento che dell’opera predispose il maestro Alfano *33, dopo la morte di Puccini, accogliendo bensì Turandot come uno dei capolavori incompiuti del teatro musicale novecentesco: e tale lo dovette considerare Arturo Toscanini quando, in occasione della ‘prima’ scaligera del 1926, interruppe l’esecuzione laddove Puccini, morendo, aveva lasciato l’opera, dopo il sacrificio di Liù. Il compianto funebre per lei può perciò essere indicato come l’epitaffio pucciniano della sua idea dell’opera e, contemporaneamente, di tutto il melodramma dell’Ottocento.

*1 La furberia delle donne e la loro malizia, in Le mille e una notte, trad. it. di F. Gabrieli, Torino,
Einaudi, 1973 (1948), vol. II, pp. 89-151.
*2 Anche il nome della principessa è persiano (Turan-Dokht) e significa la fanciulla del Turan: toponimo impiegato in Persia per indicare la regione asiatica al di là dell’Osso e più ampiamente la Russia asiatica e la Cina.
*3  Sull’argomento cfr. V.J. Propp, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1966; B. Bettelheim, Il mondo incantato, Milano, Feltrinelli, 1977.

*4 Cfr. S. Freud, Il motivo della scelta degli scrigni, in Id. Opere, vol. VII, Torino, Boringhieri, 1975, pp. 207-218.

*5 W. Shakespeare, Il mercante di Venezia, atto III, scena 2.

*6 C. Gozzi, Turandot, atto II, scena 5, in C. Gozzi, Opere edite e inedite, Venezia, Zanardi, 1801-1803, tomo II.
*7 F. Schiller, Turandot, Prinzessin von China, Weimar, 1802, fu tradotta in italiano sessant’anni dopo da Andrea Maffei: Turandot/Fola tragicomica di Carlo Gozzi/imitata da Federico Schiller/e tradotta/dal /Cav. Andrea Maffei, Le Monnier, Firenze 1863.
*8 Turandot eine chinesische Fabel Worte und Musik von Ferruccio Busoni, Breitkopf & Hartel, Weisbaden, 1918/1946.
*9 Turandot: Dramma lirico in tre atti e cinque quadri, libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, musica di Giacomo Puccini, Milano, Ricordi, 1926.

*10 S. Freud, Il motivo della scelta degli scrigni, cit., p. 211 (ultimogenite di tre sorelle), così Afrodite, terza classificata nel concorso per il giudizio di Paride. Freud rileva come tre siano anche le Parche, dove Lachesi
rappresenta gli accidenti del destino (la Speranza), Cloto il destino della stirpe (il Sangue), Atropo il destino della morte (Turandot), e come le tre insieme incarnino la scansione fatale del tempo, in sottile analogia, dunque, con gli enigmi prescelti dai librettisti per l’opera di Puccini.

*11 Sulla passione diffusa in Europa per tale fiaba si veda: J. Starobinski, Ironie et mélancolie: Gozzi, Hoffmann, Kierkegaard, in Sensibilità e razionalità nel Settecento, a cura di V. Branca, Firenze, Sansoni, 1967, tomo II, pp. 441-459.
*12 La fiaba andò in scena in Venezia, presso il Teatro San Samuele, il 22 gennaio 1762 e tenne cartello per ben 16 sere consecutive, raccogliendo grandissimi consensi.
*13 In merito alla genesi drammaturgica della Turandot gozziana, rimando ai recenti studi di Javier Gutiérrez Carou in: J.G. Carou, Il Fondo Gozzi e la genesi della Turandot, “Problemi di critica goldoniana”, XIII, Ravenna, Longo Editore, 2007, pp. 129-139.

*14 La fonte di Turandot sta nella novella intitolata Histoire du Prince Calaf et de la Princesse de la Chine (Les Mille set un jour (contes Persans), in Le cabinet des Fées ou collection choisie des
contes des fées, et autres contes merveilleux, Amsterdam-Parigi, Simon, 1785-86, tomo XIV, pp. 227-296), cui si aggiunge qualche spunto tratto dall’Histoire du Roi Hormoz (ivi, tomo XV,
pp. 83-129). Non è escluso, infine, che a Gozzi fosse nota La princesse de Carizme, commediaesotica di Alain-René Lesage (1719), ispirata alla medesima fonte remota e rappresentata nel parigino Théâtre de la Foire.

*15 Il compositore Carlo Maria von Weber scrisse le musiche di scena per la Turandot per l’adattamento elaborato in versi da Schiller. La partitura consta di un’ overture e di sei brani (Op. 37).

*16 Turanda: azione fantastica in quattro parti, musica di Antonio Bazzini su libretto di Antonio Gazzoletti, Milano, 1867.
* 17 Sulle strategie formali elaborate da Puccini, Simoni e Adami, responsabili del processo, quantunque fatalmente interrotto, di formazione progressiva del dramma si veda M. Girardi, Giacomo Puccini. L’arte internazionale di un musicista italiano, Venezia, Marsilio,1995, pp. 475-484; G. Guccini, I tre enigmi di «Turandot»: processo compositivo, posizione storica, modernità teatrale, in Giacomo Puccini, «Turandot», Torino, Teatro Regio, 2006, pp. 27-43.
* 18 Cfr. W. Ashbrook e H. S. Powers, «Turandot» di Giacomo Puccini. La fine della grande tradizione, Milano, Accademia nazionale di Santa Cecilia-BMG, Ricordi, 2006.

* 19 Per un’analisi dettagliata del libretto di Turandot si veda: A. Guarnieri Corazzol, Libretti da leggere e libretti da ascoltare. Didascalia scenica e parola cantata nell’opera italiana tra Otto e Novecento, in Dal libro al libretto. La letteratura per musica dal ’700 al ’900, a cura di Mariasilvia Tatti, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 207-221.
*20 Egli non pensava neppure alla versione curata da Schiller per il Teatro di Weimar, che un’infondata tradizione descrive come metamorfosi “romantica” e “umana” della fiaba di Gozzi,mentre altro non è che una traduzione quasi letterale, fatta salva qualche battuta e qualche taglio, e per i dialoghi delle maschere, nel testo di Gozzi affidati all’improvvisazione dei comici e da Schiller scritti per esteso. Sull’argomento si veda: S. Winter, Tra ragione e passione. “Turandot” di Carlo Gozzi e di Friedrich Schiller, Problemi di Critica Goldoniana, VIII, Ravenna, Longo Editore, 2001; G. Paduano, Da Gozzi a Puccini: la Turandot implicita di Giacosa, in R. Alonge (a cura di), Giacosa e le seduzioni della scena, Bari, Edizioni di pagina, pp. 39-58.

* 21 F. D’Amico, L’opera insolita, Programma di sala, Teatro alla Scala, stagione 1983-1984, p. 9.

*22 G. Adami, Puccini e Turandot, «La Lettura», XXVI/4, 1926, p. 245.
*23 Ivi, pp. 241-250; M. Girardi, Giacomo Puccini cit., p. 463.

*24 G. Puccini, Turandot, atto II, quadro I

*25  C. Gozzi, Turandot, atto III, scena 1.

*26 C. Gozzi, Turandot, atto V, scena 2.

*27 G. Puccini, Turandot, atto I.
*28 Ivi, atto III, quadro I.

*29 G. Puccini, Turandot, atto II, quadro II.
*30 Per un’attenta disamina dell’argomento si veda: E. D’Angelo, Il libretto di Turandot. La
sostanza della forma, “La Fenice prima dell’Opera”, 2007, pp. 29-46.

*31 Sull’argomento si veda Kii-Ming Lo, «Turandot» auf der Opernbühne, Frankfurt–Bern–New York, Peter Lang, 1996, in particolare 5.3 Die Konstruktion einer musikalischen Chinoiserie, pp.
325-336.

*33 Sulle questioni relative al finale di Turandot rimando ai seguenti riferimenti bilbiografici: T. Celli, Gli abbozzi per Turandot, «Quaderni pucciniani», II, 1985, pp. 43-65; J. Maehder, Studien zum Fragmentcharakter von Giacomo Puccinis «Turandot», «Analecta musicologica», XXII, 1984, pp. 297-379; trad. it.: Studi sul carattere di frammento della «Turandot» di Giacomo Puccini, «Quaderni pucciniani» cit., pp. 79-163; M. Uvietta, «È l’ora della prova»: un finale Puccini-Berio per «Turandot», «Studi musicali»,XXXI/2, 2002, pp. 395-479 (versione ridotta in W. Ashbrook e H. S. Powers, «Turandot» di Giacomo Puccini. La fine della grande tradizione, cit., pp. 253-327); trad. ingl.: «È l’ora della prova»: Berio’s Finalefor Puccini’s «Turandot», «Cambridge Opera Journal», XVI/2, luglio 2004, pp. 187-238;D. Schickling, Giacomo Puccini. Catalogue of the Works, Kassel, Bärenreiter, 2003, pp.374-394: 377-379;L. B. Fairtile, Duetto a tre: Franco Alfano’s Completion of «Turandot», «Cambridge Opera Journal», XVI/2, 2004, pp. 163-186 Cfr. J. Maehder, Studi sul carattere di frammento della Turandot di Giacomo Puccini, in:”Quaderni pucciniani”, cit., pp. 79-163.