Don Giovanni – note di regia

Il Don Giovanni è fra le opere di Mozart quella in cui più
apertamente venga messa a nudo l’anima nera del Settecento: un
secolo convenzionalmente ritratto e rappresentato nell’eleganza
delle lunghe vesti signorili, delle scarpe con tacco e fibbia d’argento
per gli uomini in polpe bianche, delle parrucche incipriate, delle
movenze garbate e rigidamente controllate da un codice condiviso,
delle danze aristocratiche emblematicamente rappresentate dal
minuetto.
Recenti sviluppi della critica e soprattutto della regia italiane hanno
messo a nudo la vera anima del Settecento, in cui l’eleganza degli
abiti cela lo sporco di una vergognosa mancanza di igiene, la cipria
delle parrucche nasconde i pidocchi annidati fra i capelli, la grazia
delle convenzioni mondane rivela il suo inconfessabile segreto nella
moda del cicisbeismo che oggi definiremmo più onestamente
dell’adulterio continuato e appena mascherato in modo da essere
socialmente autorizzato.
Studiosi e registi italiani del secondo Novecento hanno finalmente
strappato il velo di convenzioni e tradizioni che falsificavano
l’immagine di un secolo, ritratto all’epoca con attendibile crudezza
nei romanzi del Marchese de Sade e nei Mémoires di Giacomo
Casanova. Protagonista oltre che narratore della sua propria vita,
quest’ultimo ci conduce assai vicini al Don Giovanni mozartiano,
anch’esso spesso e a lungo rappresentato come un’opera buffa il cui
protagonista veniva un po’ semplicisticamente interpretato come
campione di libertinismo e vita dissipata: un buontempone
collezionista di avventure erotiche.
Mozart, invece, e prima ancora il suo librettista Lorenzo Da Ponte,
veneziano come Casanova e di lui poco più giovane, sembrano
pensare al personaggio semiromanzesco di quest’ultimo assai più
che a l Burlador de Sevilla di Tirso da Molina (1630) e al Don
Giovanni di Molière (1665) nell’atto di comporre l’opera che delle
sue fonti conserva solo la “buffa” apparenza della sfortunata
vicenda di uno sfacciato sottaniere.
Il capolavoro mozartiano mette a frutto lo smagliante libretto di Da
Ponte dipingendo una vicenda nera di perdizione, non tanto sociale,
quanto umana e psicologica, dominata con cupa ostinazione fino
agli ultimi istanti e fino alle ultime mortali conseguenze da un
personaggio che nulla o quasi ha in sé del tracotante fascino proprio
dei suoi archetipi teatrali di Tirso e Molière.Squadernando con una volontà di rivincita nei confronti del suo
padrone il “catalogo” delle di lui conquiste, Leporello disegna il
ritratto di un erotomane, di un uomo che soffre quasi
dolorosamente la condanna di una patologica coazione a ripetere
che lo obbliga ad allineare le sue vittime, una dopo l’altra, senza
badare ai meriti, all’interesse, all’originalità di ciascuna di esse, fra
le quali hanno posto “donne d’ogni grado,d’ogni forma, d’ogni età”.
Delle vecchie fa conquista
Pel piacer di porle in lista;
Sua passion predominante
È la giovin principiante.
Non si picca se sia ricca,
Se sia brutta, se sia bella,
Purché porti la gonnella,
Voi sapete quel che fa.
Nel suo comportamento malato non c’è spazio né tempo per
discernere e per scegliere: urge la coazione a ripetere, ad
accumulare, e il mezzo che consente ciò è la menzogna altrettanto
spontanea, necessaria e frutto di una irresistibile e incontenibile
urgenza.
Per lui le “donne” sono come l’ossigeno, gli servono di continuo, per
respirare, senza una seppur breve interruzione. A Leporello che
prova a dissuaderlo da una condotta che va facendosi pericolosa,
egli risponde:
Lasciar le donne? Pazzo!
Lasciar le donne?
Sai ch’elle per me
son necessarie più del pan che mangio,
più dell’aria che spiro!
Sbaglia forse Donna Elvira a definire “nera” la sua anima, che a me
pare, piuttosto, travagliata e sofferente, costretta com’è a ripetere
all’infinito il medesimo comportamento, seguendo il copione che la
sua patologia gli impone, senza mail sollievo di un’autentica
conclusione.
Egli ha consumato così la sua giovinezza e, ormai stanco e un po’
bolso, fatica a perseguire i suoi scopi, potendo contare solo sulla
traccia sopravvissuta del suo passato irresistibile fascino.
Il Don Giovanni mozartiano non mi appare come un vero erotomane
e non a caso, nei versi di Da Ponte non si scopre la prova ch’egli abbia neppure fino in fondo consumato i rapporti che ha aperto con
una vittima dopo l’altra, disonorandole con la sua condotta
socialmente deplorevole. Come avverte Leporello che lo conosce
meglio di chiunque altro, egli non è attratto dal fascino o dalla
bellezza, ma risponde al mero bisogno di collezionare, di contare le
sue prede per poi gettarsele alle spalle una dopo l’altra.
Elvira e Anna non sono fanciulle fresche e attraenti, ma donne già
un poco mature e, chissà, neppure così belle. La prima lo insegue
disperata per l’abbandono sofferto la cui irrimediabilità la conduce
quasi alla pazzia. La seconda, promessa sposa a lui, ma non del
tutto estranea al possibile ripiego costituito dal vagheggino don
Ottavio, temporeggia per non precludersi alcuna strada.
Zerlina costituisce forse il primo fallimento per Don Giovanni che
instancabilmente cerca di farla sua senza veramente riuscirci.
Ma mentre ancora la corteggia, don Giovanni si lascia prendere
dall’ansia di accumulare conquiste e confessa a Leporello il suo
bisogno di accalappiare alcune contadinotte a un solo scopo:
accrescere l’elenco delle vittime.
Ah! la mia lista
Doman mattina
D’una decina
Devi aumentar!
D’una decina
Devi aumentar!
D’una decina
Devi aumentar!
Devi aumentar!
Devi aumentar!
Devi aumentar!
E’ la fine per lui: il cerchio della società gli si stringe intorno, con
Anna, Ottavio, Zerlina e Masetto che lo vorrebbero punito e la sola
Elvira che ne ha, in fondo, una umanissima seppure taciuta
compassione.
Incapace di porsi un limite e inconsapevole di essere giunto alla fine
del suo percorso, Don Giovanni sfida l’al di là e invita a cena il
Commendatore.
A me sembra che questo “comprimario” rivesta, invece, un ruolo
nodale nell’opera, apparentemente trasformando una commedia in
tragicommedia: io non lo vedo, tuttavia, come un’ombra minacciosa
che riemerga dal regno dei morti per vendicare l’onore di Anna (che
forse non lo ha nemmeno davvero perduto per mano di Don Giovanni), ma come una vittima predestinata, giunta per farsi
uccidere e redimere quindi il suo assassino. Egli mi sembra una
funzione provvidenziale del destino o del Cielo che si immoli
facendosi trucidare da Don Giovanni, senza difendersi, e torni,
infine, in terra per condurlo con sé. Dove? Agli inferi o in Cielo, in
fondo poco importa. Il Commendatore scende in terra per liberare
l’anima tormentata di Don Giovanni dal suo destino di sofferenza
eternamente ripetuta…e per liberare il mondo dal pericolo sempre
incombente di quell’involontario manigoldo.
Paolo Bosisio