Traviata: un dramma sociale

Mettere in scena Traviata significa misurarsi con un melodramma caratterizzato da forti tinte
drammatiche, la cui tradizione scenica è tale da comportare atteggiamenti per così dire
preconcetti nel pubblico che, dallo spettacolo, si aspetta sempre e comunque una serie di
puntuali e quasi rituali momenti di emozione legati ai passaggi musicali topici dell’opera. La
tragedia di Violetta, “donna sola e abbandonata”, è, infatti, tradizionalmente letta come
l’inevitabile conseguenza di un sacrificio dettato prevalentemente dal cuore, ossia dall’amore
ch’ella, prostituta seppure d’alto bordo, per la prima volta proverebbe per Alfredo. Violetta
vittima, dunque, ma soprattutto donna che ama e generosamente compie l’estremo gesto,
rinunciando alla propria felicità e immolandosi per il bene della sorella dell’amato, la giovane
“pura siccome un angelo”, che costituirebbe il perfetto contraltare alla “traviata”, e perciò
indegna, amante di Alfredo. In tale contesto Germont appare tradizionalmente come un povero
vecchio che si vede, suo malgrado e dolorosamente, costretto a intervenire per fare salva la
reputazione della famiglia, compromessa dall’avventatezza sentimentale di Alfredo, per
consentire nozze adeguate alla figlia, appunto “pura siccome un angelo” che è impensabile non
difendere dal fango della corruzione.
Senza alcuna pretesa di sovvertire la tradizione per sostituire a letture preconcette una non
meno preconcetta interpretazione, mi è parso necessario cercare all’interno della materia
sentimentale e a tratti anche un poco sentimentalistica, qualche ragione in più. Oltre che storia
di sentimenti, di emozioni, di mondanità, Traviata mi sembra un dramma sociale, prima ancora
che umano, e ciascuno dei personaggi pare inserirsi perfettamente all’interno di uno schema
relazionale determinato appunto dalle norme del mondo ritratto, impossibile da mutare. I
personaggi del dramma, prima forse che individui, sono ingranaggi di un meccanismo sociale
consolidato all’interno del quale non c’è spazio per l’amore, per la compassione, per la
salvezza.
In tale prospettiva (e nella mia lettura personale dell’opera), Germont diventa il personaggio
chiave del dramma. Egli è il motore dell’azione drammatica che si sviluppa dalla
sovrapposizione di esigenze di carattere sociale e mondano alla spontanea dialettica dei
sentimenti. Egli incarna quell’urgenza di rispettabilità che è la spinta di ogni suo agire: non
l’amore per la propria figlia, non la compassione per Violetta, ma la necessità tutta borghese di
difendere la sua reputazione, la rispettabilità della sua famiglia e della classe sociale cui
appartiene orgogliosamente, guidano la sua mano a tessere la trama drammatica della
vicenda. Egli è un uomo ancora giovane, ancora inserito ‘nella vita’, attivo, egli stesso, forse,
frequentatore abituale (e clandestino) di quelle prostitute che in società disprezza e non può
certo accogliere nella vita della propria famiglia. Nel primo atto, lo si vede dunque entrare nella
casa di Violetta, accogliere benevolmente e non senza compiacimento i complimenti di alcune
giovani frequentatrici di quel salotto in cui è presente il bel mondo, in gran parte aristocratico,
certamente meno preoccupato di far salve le apparenze rispetto ai borghesi che, come
Germont appunto, si lasciano affascinare dal piacere in sé e dal gusto di imitare la classe
superiore, senza possederne la congenita “sprezzatura”.
Contraltare di Germont è il di lui figlio Alfredo, che a me pare come un giovanissimo, ingenuo
giovanotto, affatto inesperto della vita nella quale è entrato con la facilità del denaro paterno e
senza le avvedutezze che l’esperienza sola può assicurare: egli si innamora (o, chissà, crede di
innamorarsi) perdutamente di Violetta, e senza curarsi della di lei poco presentabile attività
professionale, o forse addirittura attratto inconsapevolmente dal desiderio di sottrarre una
preda scontata dagli artigli dell’aristocrazia. Il suo è un amore sensuale e romantico, come
spesso è quello dei giovani alle prime esperienze sentimentali. Appassionato e impulsivo come
vuole la sua giovane età, egli cade vittima del fascino di Violetta, anch’ella giovane, (ma che,
di contro alla fonte dumasiana, io vedo di qualche anno più adulta di lui) e soprattutto dotata
di un’esperienza della vita e del mondo che la rendono disincantata e lucida. Violetta è una
professionista che ha fatto dell’amore e del piacere sensuale un mestiere e che ha presto
compreso la necessità, per salvaguardarsi, di tenere proprio l’amore e il piacere lontani dal suo
io più profondo. Ella non è una donna “sola e abbandonata”, ma una professionista cinica, cui
accade di essere incuriosita e infine contagiata dall’irrazionale amore giovanile di Alfredo, che
la lascia incredula dinnanzi alla sincerità dei suoi sentimenti. E così, Violetta si trova a
scegliere, per una volta, di credere nell’amore, di cedere al richiamo dei sensi, aprendo una breccia nel muro dietro il quale la sua razionalità l’ha confinata, decidendo di annullare lo iato
che ella aveva posto tra se stessa e l’amore.
Ma l’illusione ha vita breve e, quando Violetta si scontra con la realtà e accetta di sacrificare il
suo amore su richiesta di Germont, non lo fa tanto per compassione verso di lui o verso la sua
giovane figlia, quanto perché ricondotta bruscamente alla consapevolezza dell’ineluttabilità del
suo destino e della necessità di portare fino alle estreme conseguenze la sua scelta di vita.
Germont non la commuove con la storiella della figlia candida e pura, ma la riconduce
crudamente alle regole del gioco: una prostituta ha compiuto una scelta di vita che la esclude
definitivamente dalla società, con la quale può avere relazioni esclusivamente di carattere
mercenario. I sentimenti e le buone intenzioni non bastano a cancellare la macchia di una
professione disonorante, seppure accolta e sfruttata serenamente da tutti entro la zona franca
del piacere.
Attorno ai tre protagonisti si muove una girandola di personaggi che incarnano posizioni e
istanze di carattere sociale altrettanto definite e concorrono a dare vita a una Traviata in cui i
sentimenti tracollano dinnanzi alle costrizioni sociali e in cui la regia sceglie di adottare un
registro caratterizzato da estrema castigatezza di tinte drammatiche.
A connotare ulteriormente questa messa in scena, anche la scelta di posticipare
l’ambientazione del dramma dalla metà dell’Ottocento alla Belle Époque, “l’epoca bella”, “i bei
tempi” che sembrano essere la cornice ideale per le vicende musicate da Verdi e ambientate in
una Parigi che proprio in quegli anni del Novecento fu capitale indiscussa e fucina incessante di
tendenze che contagiarono l’intera Europa.
Chi si aspettasse lacrime, abbracci, struggimenti, commozioni transitorie e “lieto” fine con
decesso risolutivo di tutti i problemi in campo (fatti salvi quelle della defunta), potrà forse
rimanere deluso dal rigore dei quadri in cui si sottolinea, con l’uso dello spazio, dei gesti e della
luce, la solitudine disperata di Violetta che muore, corrosa dal male e da una povertà che si è
scelta forse come un sacrificio sull’altare dell’unico amore della sua vita, senza che alcuno le
porga il conforto di un contatto autentico, di un sentimento profondo di solidarietà, capace di
travalicare anche le barriere imposte dalla società e dalle norme della “creanza”.

Paolo Bosisio