Eggs and bacon

NOTE DI REGIA PER PAGLIACCI E CAVALLERIA RUSTICANA

Non è inconsueto assistere alla rappresentazione di Cavalleria rusticana e
Pagliacci, riuniti nella medesima serata di spettacolo, tanto che, nei paesi
anglosassoni, si è soliti definire l’operazione con la familiare locuzione
‘Eggs and bacon’, a sottolineare la perfetta conciliabilità dell’incontro dei
due ‘ingredienti’ teatrali in una ricetta di sicuro successo. L’accostamento
è motivato, innanzitutto, dalla necessità tutta esteriore di comporre,
mediante la somma di due opere brevi, uno spettacolo di durata normale.
Cavalleria e Pagliacci, inoltre, sarebbero accomunati dall’appartenenza al
verismo, di cui anzi costituirebbero due fra i frutti più maturi e
convincenti.
Sono personalmente poco convinto della fondatezza di tale ultima
ragione, poiché ritengo che le vicende rappresentate in Cavalleria e
Pagliacci traggano bensì vita da un humus culturale verista (nel primo dei
due casi concretamente costituito dalla omonima novella verghiana), ma
che le drammaturgie attestate dai libretti e più ancora le musiche di
Mascagni e Leoncavallo da quel verismo prendano vistose distanze,
preferendo alla freddezza del nudo documento (come attingibile poi con il
mezzo musicale?), l’intensità del melodramma di radice sia pur
remotamente romantica, intinto nelle tinte fosche di passione e coltello,
non esenti da echi di una cultura riconoscibilmente mediterranea e
meridionale.
Preferisco lasciare alla competenza dei musicologi la verifica di
quanto ho suggerito, per passare a un’analisi breve delle due opere e delle
ragioni intrinseche che, a mio avviso, giustificano e, addirittura,
consigliano di inscriverle nella medesima rappresentazione drammatica, in
un’unitaria concezione registica, e non, più semplicemente, di accostarle
meccanicamente nella stessa serata di spettacolo.
Ad un esame attento, infatti, le due opere rivelano una molteplicità di
elementi caratteristici, tutt’altro che esteriori, la cui coincidenza (nel senso
etimologico di – non casuale – perfetta identità, precisa sovrapponibilità
dei tratti) suggerisce, se non addirittura impone, di fonderle in una ‘opera’
unica.
Prescindendo affatto da un’indagine musicologia per cui manca la
competenza e prendendo le mosse dall’esterno, ossia dai dati oggettivi che
caratterizzano le due opere, si noteranno non pochi tratti comuni: ambedue
le vicende sono ambientate nel meridione d’Italia (e poco importa se per Cavalleria si tratti della Sicilia e per Pagliacci della contigua Calabria), in
un luogo cioè battuto dal sole, in cui la temperatura esterna sembra trovare
arcane corrispondenze con quella degli animi che tende a esprimersi nel
bollore di passioni irrefrenabili e di comportamenti irrazionali.
Ambientazione significa, in questo caso certamente, cultura di riferimento.
Sicché la campagna meridionale che accoglie le vicende di Cavalleria e
Pagliacci si esprime in una cultura contadina, ancora estranea al progresso,
che identifica i propri punti di riferimento nei vertici di un triangolo
costituito da chiesa-osteria-famiglia: quest’ultima sola non fisicamente
rappresentata nelle simmetriche ambientazioni delle due opere, eppure
determinante nello sviluppo delle due drammaturgie come tabernacolo del
culto privato di valori quali l’onore, la fedeltà, il dovere coniugale, imposti
da una tradizione fortemente conservativa, più che accettati
consapevolmente da chi, patendoli, si sente in dovere di farli patire ad altri.
I luoghi dell’azione si pongono in ambedue i casi, come la
trascrizione nei termini della concretezza scenografica dei punti di
riferimento di cui si diceva poc’anzi, sicché la chiesa e l’osteria si
contrappongono sulla scena come i luoghi deputati per diverse, se non
contrastanti, ecclesialità, religione devota l’una, laica e profana l’altra.
Ma il luogo dell’azione, del dramma, degli scontri, è, in ambedue i
casi, un esterno che assume le sembianze sovrapponibili della piazza e del
teatrino ambulante, insomma di due analoghe agorà, luoghi di
un’ecclesialità in questo caso civile.
E l’insistito carattere ecclesiale delle due vicende è dimostrato dal
loro svolgersi pubblico, nei luoghi degli incontri, al cospetto quasi
continuo e, comunque, garantito nei vertici della climax drammatica, di un
pubblico, di un coro la cui funzione puramente musicale non è l’unica
ragione d’essere, svolgendo un ruolo di ‘spectator’, ossia di sguardo vigile
della comunità sul perfetto e ineluttabile compiersi dei destini individuali
determinati da una inflessibile morale sociale.
Non varrà la pena di dare evidenza alla perfetta identità delle voci
indicate per i protagonisti delle due opere (tenore, baritono, soprano)
poiché assai frequente per non dire consueto, bensì forse sul fatto che in
ambedue le vicende l’azione drammatica si sviluppa tra due funzioni
maschili rivali tra loro nella passione per una funzione femminile,
giungendo alla catastrofe grazie all’intervento tutto sommato esterno, ossia
indifferente alle passioni che travolgono i protagonisti, di una funzione
aggiuntiva: Lola in Cavalleria esige la fisicità di Turiddu per compensare
(e forse punire) la assenza prolungata di Alfio, ma non conosce lo strazio della passione che dilania Santuzza; e analogamente Silvio desidera Nedda
(sarà poi casuale un nome così spiccatamente verghiano?), la getta a terra,
sfoga su di lei le sue voglie, ma rimane del tutto estraneo ai diversi
tormenti che con identica voracità mordono Canio e Tonio. E se Turiddu è
oggetto in fondo passivo della travolgente passione di Santuzza, Nedda
specularmente appare ben poco sensibile all’amore elementare e
possessivo di Canio.
Siamo passati dall’analisi di corrispondenze per così dire esteriori o
estrinseche, alla verifica di coincidenze profonde, attinenti alla
fenomenologia degli eventi e alla dinamica drammaturgica delle psicologie
e delle funzioni drammatiche.
Per tale via, occorre cogliere la perfetta identità delle vicende e delle
passioni che le agitano. Lo schema è, infatti, perfettamente sovrapponibile:

S1 =>
T1 ←≠ A
L →

T2 =>
N ←≠ C
S2 →

Santuzza (S1), proprio come Tonio (T2), amano follemente e
disperatamente chi non sa né vuole corrispondere alla loro passione
(Turiddu T1 e Nedda N). Più blanda nelle motivazioni sentimentali e
sostanzialmente risolta nella fisicità dell’eros è l’attrazione che spinge
verso i medesimi soggetti i due amanti (Lola L e Silvio S2), in tale veste
accettati e ricambiati con analoga leggerezza.
Identica la reazione dell’antagonista che si esprime nella violenta
eliminazione del rivale, non tanto e non solo perché tale, bensì per la
necessità tutta culturale di cancellare il disonore prodotto dall’infrazione
del codice di comportamento imposto dalla tradizione. Né Alfio, né Canio
amano le proprie mogli di quell’amore almeno di puro e disinteressato
sentimento, che ci si attenderebbe a provocare un delitto. Il sentimento –
che tale è a dispetto delle apparenze – che li lega alle mogli è appunto un
‘sentimento’ culturale, una sorta di legame sacramentale e perciò
considerato infrangibile e intangibile, al di là di emozioni e pulsioni,
eventualmente autorizzate, appunto, per convenzione sociale ai soli maschi. Ma un ‘sentimento’ proprio per questo fortissimo e capace di farsi
feroce, armando la mano vendicatrice di chi si sente in esso offeso.
Ancora più interessante appare la perfetta identità delle motivazioni
che spingono coloro che dalla passione sono davvero travolti e accecati dal
rifiuto loro opposto (Santuzza e Tonio) a tradire l’oggetto del loro amore,
avviando consapevolmente un processo che essi sanno inarrestabile e
fatale, destinato a concludersi con la morte dell’amato. Non sono certo
Lola e Silvio, ossia coloro che esercitano nella fisicità dell’amplesso il
rapporto con i protagonisti, a determinarne il destino tragico, bensì coloro
che, rifiutati, sono costretti ad assistere, impotenti e umiliati, a quanto altri
fanno accadere.
Misera, dolente, straziante rivincita quella che Santuzza e Tonio si
prendono attraverso la delazione, e terribile il dolore, che con la morte
inevitabile e rituale dell’amato, spezzerà loro il cuore anziché lenirne le
sofferenze. Sicché, cercando di rettamente intendere il sottotesto di
Cavalleria e Pagliacci, non sarà forse forzato immaginare per Santuzza e
Tonio un analogo destino di strazio, una identica esigenza di espiare l’atto
omicida compiuto per mano d’altri, giungendo forse fino alle conseguenze
estreme del suicidio.
A partire dalle premesse che ho qui delineato, mi è parso che una
possibile chiave di lettura registica per ‘uno’ spettacolo, composto dal
solido e radicato insieme di Cavalleria e Pagliacci, sia suggerita da
Leoncavallo nella concezione della sua opera, articolata nei due cerchi
concentrici della vicenda teatrale e della vicenda metateatrale.
Nei Pagliacci la drammatica fabula della passione, del tradimento e
del delitto d’onore che ha per ‘attori’ Canio, Nedda e Silvio è
scenicamente raddoppiata dalla commedia omologa di Pagliaccio,
Colombina e Arlecchino.
Mediante le modalità del teatro nel teatro, Leoncavallo (e in questa
sede non ci interessa la ricognizione delle sue fonti, supposte o reali)
anticipa nella finzione ciò che accade nella ‘realtà’, beninteso fittizia
poiché a sua volta teatrale. E cos’altro può essere allora Cavalleria se non
un’altra duplicazione, un’ulteriore drammatica anticipazione delle vicende
umane di Canio/Nedda/Silvio?
Un terzo cerchio si aggiunge a integrare la struttura drammaturgica
voluta da Leoncavallo, a caricare di nuova forza la tensione del dramma,
l’attesa da parte del pubblico dello scioglimento liberatorio, della
pugnalata e del sangue, quello vero che sgorgando dal ventre di Nedda e
Silvio, ponga fine all’atroce ripetizione di sequenze e di gesti, sempre uguali a se stessi, gravati come sono dall’ineluttabilità rituale imposta dal
rispetto di rigide norme di comportamento sociale.
E allora ecco sul palcoscenico, fin dall’inizio, il povero carro che
ospita la vita raminga della compagnia comica di Canio, Nedda e Tonio.
Ecco annunziata la rappresentazione di un primo spettacolo, Cavalleria
rusticana, che al cospetto di un pubblico la cui quotidianità è scandita dal
passeggio e dalla partecipazione alla messa, finge una truce vicenda di
passione di sangue, in cui tutto è per necessità finzione, sicché la passione
e la morte sono solo recitate, il sangue non è sparso, e Turiddu, dopo
essere caduto sotto le coltellate di Alfio, si alza per raccogliere gli applausi
del pubblico. Ecco Canio, Nedda e Tonio svestire i poveri panni di
Turiddu, Santuzza e Alfio, per affrontare la loro realtà, negli stracci della
quotidianità, così poco dissimile dalla finzione. Ecco quindi scattare la
molla della passione e prepararsi la vendetta: ma un rallentamento si
impone, una dilazione che carichi gli eventi di una risonanza più cupa. E
allora l’ultima, tragica recita sulla pista dei Pagliacci ambulanti. Potremmo
intitolarlo, volendo, Le gelosie di Pagliaccio, ma poco importa.
I rutilanti e graziosi costumi di Arlecchino e Colombina, il naso
rosso di Pagliaccio, accrescono il salto dalla finzione alla realtà. La giubba
vestita da Canio (qui vestito da Augusto e non da Bianco, secondo una
tradizione indifferente al significato simbolico dell’abbigliamento dei
clown) lo trattiene ancora per poco al di qua del baratro: il furore che
cresce fino a esplodere ve lo sospinge e allora la finzione cede
definitivamente il passo alla ‘realtà’, la ferita apre il ventre, il sangue
sgorga e sporca le mani di Canio.
‘La commedia è finita’ davvero: e un sacerdote accorre pietoso dalla
chiesa per inginocchiarsi davanti ai corpi esanimi dei colpevoli. Rimane da
dire che la chiave di lettura registica proposta sembra autorizzare
l’impiego della zona scenicamente ‘franca’, simmetricamente aperta da
Mascagni e da Leoncavallo con l’intermezzo, per affidare a una coppia di
danzatori il compito di riassumere, nel linguaggio allusivo, simbolico e
cifrato del corpo, l’iterazione ossessiva della ossatura drammatica; e di
sfruttare gli spazi creati dalla Siciliana che apre la Cavalleria, come del
Prologo che apre i Pagliacci, per tratteggiare il backstage che ‘storicizza’
ciò che avviene sulla scena, incardinando le presenze dei commedianti, di
Canio, Nedda e la loro povera truppa, in quella ‘verità’, finta verità o vera
finzione o rappresentazione veristica di una tranche de vie, cui Verga
certamente e, con le distinzioni del caso, i librettisti aspiravano. Varrà ancora la pena di ricercare nella fruizione, assunta nella
presente ipotesi di regia, dal continuo, iterato trascorrere degli attori ai
personaggi che incarnano a quelli che, di volta in volta, si incaricano di
‘rappresentare’ sul palcoscenico del teatro nel teatro, una traccia di
brechtiana Verfremdung. Sarebbe probabilmente un eccesso interpretativo
che preferisco evitare.

Paolo Bosisio