Carmen – note di regia

Il trascorrere del tempo – anni, decenni, secoli – stabilisce con inesorabile certezza il valore assoluto dei capolavori dell’arte e, a volte, ne ridisegna i contorni interpretativi, fino a mutare certe loro sembianze nella riscoperta delle intenzioni che si viene a supporre abbiano a suo tempo ispirato l’autore.

Ciò avviene anche nel teatro d’opera, pure assai più conservativo di quello
drammatico o di altri generi d’arte, sicché Traviata è diventata ineludibilmente
un’opera diversa dalla sua ricchissima tradizione dopo la lettura operatane da
Luchino Visconti con la Callas, proprio come era avvenuto per opera del
medesimo regista con la goldoniana Locandiera interpretata da Rina Morelli.
Carmen fu commissionata a Bizet per l’Opéra Comique dove fu rappresentata
con scarso successo nel 1875, al termine di una serie di scontri e polemiche fra
il compositore, i librettisti, i componenti dell’orchestra e i dirigenti della sala,
frequentata per lo più da famiglie e usa a ospitare spettacoli meno contrastati
e drammatici e, in un certo senso, più concilianti.
I meriti dell’opera emersero solo in seguito, dopo la morte dell’autore, e ne
fecero una delle opere più amate e rappresentate, ammirata dai musicisti più
importanti tra Otto e Novecento, da Wagner a Brahms e Čajkovskij. La
versione originale, inframmezzata da lunghe scene recitate, fra una parte
cantata e l’altra, come voleva l’originaria destinazione per l’Opéra, fu
ovviamente accantonata per una versione interamente cantata, solo di recente
rifiutata per poco comprensibili smanie filologiche di incauti registi, all’oscuro
delle dinamiche del grande teatro musicale.
Inutile scrupolo filologico sarebbe anche quello che riconducesse all’analisi del
romanzo di Mérimée, da cui i librettisti si ispirarono con la ovvia e necessaria
libertà, e persino al loro lavoro originale che occorre guardare con cautela,
cercando piuttosto il senso dell’opera nelle note di Bizet, così ostinatamente
difese dal compositore contro chiunque lo sollecitasse a cambiare qualcosa,
attenuando, addolcendo, conciliando…
Rileggendo la partitura attento più alla musica che alle parole, in verità meno
significative delle già scarsamente interessanti di parecchi libretti coevi, mi è
parso di cogliere le tracce di una drammatica storia di solitudine.
Carmen è una donna sola innanzitutto fra le sue compagne sigaraie, anche
quando si accosta a Frasquita e Mercedes che sembrano essere più le ancelle di
una solitaria sovrana, che le amiche complici. Carmen è più bella, e la sua
personalità è percorsa dai lampi di una inspiegabile violenza, capricciosa e
insensata. La sua condotta è improntata alla sfida continua: sfida nei confronti
delle compagne di lavoro che la considerano evidentemente superiore e le
fanno largo quando appare fra loro. Sfida nei confronti di Zuniga e dei militari
che la vorrebbero sottomettere a un codice di comportamento ch’ella continua
a ignorare anche mentre porge le mani affinché vengano legate per condurla in
prigione: una prigione dove entrerà il suo corpo, ma non la sua sregolata
personalità che sbeffeggerà la ridicola superbia dei soldati. Sfida nei confronti
di don Josè, che si diverte a piegare al suo fascino e alla sua forza intellettuale
fino a travolgerlo e a condurlo in un’avventura folle, di disobbedienza, carcerazione, ribellione, brigantaggio, disperazione, cui la ben povera mente
del giovane soldato non sa opporre alcuna valida resistenza. Il tenore – come
molti dei grandi protagonisti del melodramma, genere al quale ascriverei senza
esitazione alcuna Carmen, nonostante la sua originale destinazione – è un
giovane sventato, un amoroso dell’antica tradizione teatrale che diviene vittima
dei suoi sentimenti, o meglio delle pulsioni irrazionali ch’egli scambia per tali, e
finisce per travolgere nel suo destino quello di altri. Nulla di molto nuovo
rispetto a Romeo e Giulietta di Shakespeare, ma anche rispetto a Traviata o a
Boheme.
Escamillo non è il vero amore, finalmente incontrato da Carmen, a cui ella si
immolerebbe affrontando la lama dissennata di don José, ma è una nuova
sfida, cui si sottopone quasi per coazione la bella Carmen. Ammirato da tutti,
desiderato dalle donne che superficialmente colgono in lui il seme della virilità,
solo esteriore beninteso, egli diviene l’oggetto della ultima sfida della
protagonista. La sua voce di baritono preannunzia una componente fatale che
si manifesta, in questo caso, non come la crudeltà diversamente atteggiata di
uno Scarpia o di un Germont, ma come la mano inconsapevole del fato che
sospinge la protagonista al suo ultimo destino.
Carmen non ama veramente don Josè come non ama Escamillo, e come non ha
mai amato altri che sé, rinchiusa in una melanconica solitudine che si traveste
di esplosiva allegria solo per esercitare il proprio vano potere sugli altri, per
sedurli, per abbandonarli al loro destino.
In questa umanità in gran parte mediocre o, con Carmen, dolorosamente
diversa, si erge sottile il canto isolato di Micaela – la cui centralità è dimostrata
dalla scelta di Bizet che la introduce differenziandosi dal romanzo di Mérimée):
non un autentico personaggio in carne e ossa, ma un’eco messaggera
proveniente dal mondo dei vivi, delle persone normali: una madre che si
spegne desiderando solo di poter riabbracciare il figliolo, una donna (Micaela
stessa nella sua quotidianità) che ama non riamata, senza drammi, senza
atrocità…
Ma la voce di Micaela si dissolve come un leggero banco di nebbia sospinto dal
vento, mentre la voce scura di Carmen torna in proscenio a guidare le sorti dei
fantocci che la circondano fino a travolgerli nel gorgo della sua morte.
Paolo Bosisio